GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

La violenza di genere sulle donne è un fenomeno complesso, dato dall’interazione di fattori
individuali, di relazione, sociali, culturali ed ambientali.
L’indagine ISTAT del 2014 ha evidenziato che la gestazione stessa può portare il partner a diventare
violento: in Italia, la percentuale di donne che subiscono maltrattamenti per la prima volta durante la
gravidanza si attesta intorno al 5,9%.
Tuttavia, questi dati costituiscono solo delle stime in quanto la reale prevalenza del fenomeno rimane
sconosciuta a causa soprattutto della scarsa conoscenza dei professionisti sanitari circa le sue
manifestazioni e segni e sintomi allertanti e la loro reticenza nel sottoporre di routine tutte le donne a
test di screening Pertanto, i numeri si basano solo su ciò che viene riportato volontariamente dalle
vittime, che, però, sono spesso riluttanti a denunciare la propria esperienza per paura di ritorsioni da
parte del partner e timore che vengano coinvolti i servizi sociali.
Ad essere sottostimata è soprattutto l’incidenza dell’abuso emotivo, forma di violenza subdola che
spesso non lascia tracce tangibili e, pertanto, difficilmente constatabile dall’esterno. Il professionista
sanitario deve, quindi, condurre una più attenta osservazione della donna, dei suoi atteggiamenti e
comportamenti, del suo benessere emotivo e delle dinamiche relazionali in cui è inserita, al fine di
coglierne i segnali allertanti.
l’Organizzazione Mondiale della Sanità (2002 e 2012) identifica tutte quelle condizioni attribuibili
alla vittima o all’autore della violenza che costituiscono fattori di rischio per l’insorgenza della stessa.
Le motivazioni che inducono il partner ad assumere comportamenti aggressivi ed ambivalenti nel
periodo perinatale sono prevalentemente l’insicurezza circa la propria capacità di assumere nuove
responsabilità genitoriali (Antoniou, 2020), la rabbia verso la gravidanza accidentale e la gelosia nei
confronti del nascituro (Grier & Geraghty, 2015). Questo spiega il motivo per cui nel 30% dei casi la
violenza comincia nel secondo o terzo trimestre, quando si palesano i cambiamenti fisici più evidenti
e la gestazione viene riconosciuta anche a livello sociale. Nei mesi successivi al parto le donne sono
più suscettibili di abuso in quanto sottoposte a maggiore stress per le modificazioni fisiche, relazioni
intime e per la nuova sfida genitoriale (Grier & Geraghty, 2015).

In letteratura diversi autori hanno individuato delle categorie di atteggiamenti e comportamenti,
espressioni verbali, segnali relazionali, ambientali e fisici che fanno sospettare una violenza in atto
denominandoli con l’espressione red flags traducibile come campanelli d’allarme.
L’individuazione di qualsiasi campanello di allarme nel corso dell’assistenza ostetrica soprattutto se
effettuata al domicilio della donna dovrebbe indurre l’Ostetrica a sospettare una violenza in atto, ad
approfondire le dinamiche relazionali tra la donna e il partner ed attivare la rete per tutelare la donna
ed agganciarla ad un percorso di uscita dalla violenza.
Essere vittima di violenza domestica in gravidanza può portare a complicanze ostetrico-ginecologiche, tra cui accesso tardivo alle cure o discontinuità delle stesse, aborto spontaneo o ricorrente, iperemesi gravidica, rottura prematura delle membrane, placenta previa, distacco di
placenta ed emorragia ante-partum e post-partum, aumentato tasso di ospedalizzazione, tocofobia.
Inoltre il trauma diretto è la principale causa di morte materna in gravidanza e di esiti avversi fetoneonatali.
Il processo di vittimizzazione in puerperio, invece, può compromettere le competenze genitoriali
dando luogo a disturbi della relazione mamma-neonato, che esitano in attaccamento insicuro, scarsa
interazione e sentimenti di avversione, astio, collera, nonché impulso di scuotere, colpire e soffocare
il bambino. Inoltre, si associa con una più alta probabilità a depressione post-partum e sindrome da
stress post-traumatico, comportamento suicidario e problemi di allattamento.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (2002) identifica il contributo dell’ostetrica nelle
politiche di prevenzione riferibili alla violenza domestica. A livello di prevenzione primaria, verifica
la presenza di fattori di rischio, comportamenti e stili di vita dannosi per la donna e il bambino e,
attraverso l’educazione e l’alfabetizzazione sanitaria, contribuisce al rafforzamento delle loro risorse
protettive. Per quanto concerne la prevenzione secondaria, invece, l’ostetrica ha la possibilità di
intercettare segni e sintomi allertanti di violenza e possiede gli strumenti per creare rete con i servizi
pubblici e del privato sociale, superando la frammentazione dei servizi e assicurando l’efficacia e la
continuità della presa in carico. Infine, a livello di prevenzione terziaria, è coinvolta nei processi
riabilitativi al fine di aiutare la famiglia a sviluppare un piano per ricostruire le proprie risorse
difensive.
Considerando l’home visiting come uno strumento operativo per accompagnare e sostenere la
genitorialità fragile attraverso la costruzione di una relazione di aiuto, è possibile supporre che
l’assistenza domiciliare ostetrica possa agevolare la prevenzione e il riconoscimento della violenza
domestica, riducendone le conseguenze dannose. L’ostetrica, infatti, in occasione della visita
domiciliare ha l'opportunità di osservare le dinamiche relazionali nel luogo in cui si consumano, la
casa, e di cogliere red flags fisiche, comportamentali ed ambientali, espressione di una relazione
maltrattante, che non sarebbe possibile riconoscere nel contesto clinico ospedaliero.
Diversi ricercatori hanno analizzato questa tematica indagando il ruolo delle visite domiciliari nella
riduzione della prevalenza del fenomeno ed evidenziando come le donne che ricevono assistenza
domiciliare subiscano meno violenze fisiche o abusi emotivi e facciano più affidamento alle risorse
territoriali con esiti migliori di salute ed aumento dell’autostima.
Nel 2020 la Federazione Nazionale degli Ordini della Professione Ostetrica (FNOPO) propose
l’implementazione del modello di “ostetrica di famiglia e di comunità” con la finalità di “promuovere
la centralità del ruolo e della salute della donna nei sistemi familiari e sociali, con l’obiettivo di
accrescere l’empowerment, la consapevolezza e il benessere di tutti gli individui, migliorando il
welfare di comunità”.
La sostenibilità economica del sistema sanitario, le criticità emerse dalla transizione demografica,
epidemiologica, sociale ed economica degli ultimi anni, oltre alla voluminosa casistica di donne
vittime di violenza domestica e coercizione riproduttiva, rende stringente la necessità di proseguire l’iter legislativo del Disegno di legge n. 2076 presentato nel 2021 “Istituzione della figura
professionale dell'ostetrica di famiglia e di comunità” in cui è riconosciuto all’Ostetrica il ruolo di
“condurre analisi finalizzate all’individuazione dei bisogni della popolazione femminile e dei fattori
di rischio socio-sanitari. Accompagna la donna e la famiglia nel loro progetto di salute, di
genitorialità e di vita, nell’ottica della prevenzione e dell’individuazione in fase precoce di malattie
o situazioni di rischio sanitario e sociale”.
L’introduzione dell’Ostetrica di famiglia e di comunità risponde all’ esigenza di raggiungere tutte le
famiglie per l’individuazione di eventuali situazioni di disagio intrafamiliare, superando le barriere
socio-culturali che molto spesso precludono l’accesso ai servizi pubblici ed ha la finalità di realizzare
un sicuro presidio di assistenza continua in rete con i diversi professionisti e specialisti e con i servizi
preposti per aiutare le donne ad uscire dallo stato di vittimizzazione.

Cordiali saluti.
La Presidente FNOPO
Dott.ssa Silvia Vaccari

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